È domenica, l’Italia è fuori dall’europeo e la seconda serata di David Gilmour al Circo Massimo non sarà condizionata dalla partita con la Germania, com’è successo il giorno prima, quando il concerto è cominciato in ritardo rispetto al programma, per cercare di evitare che la fine dello stesso corrispondesse con la fine dei quarti di finale. A mezzanotte del giorno prima, infatti, la partita termina (seppure ai rigori), quando Gilmour deve ancora fare il bis, prima ancora di “Time” e “Comfortably Numb”. Tutto calcolato, per cercare di evitare la calca di un’ipotetica vittoria, che non c’è stata.
Ora è domenica e il concerto comincia alle nove e cinque con “5 A.M.”, a cui segue “Rattle That Lock”. Sì perché la scaletta sarà la stessa, se non fosse per “One Of These Days”, prova generale dell’imminente ritorno a Pompei e brano di apertura dopo la prima pausa, conclusasi con l’emozionante “High Hopes”, ultimo brano di “The Division Bell” e quindi di fatto dell’ultimo disco dei Pink Floyd, se escludiamo “The Endless River” (che di “High Hopes” sembra esserne una sorta di seguito, di una citazione del detto e del non detto, forse superflua), a sostituire “Astronomy Domine” (primo brano del primo disco della band inglese, per intenderci quando a capitanare il gruppo c’era ancora Syd Barrett e Gilmour ne era soltanto un compagno di scuola).
“Wish You Were Here” arriva troppo presto, pensa qualcuno, quando su Roma c’è ancora la luce del tramonto estivo; non sono nemmeno le nove e mezza, c’è il tempo per suonare i brani dell’ultimo disco e buttarci nel mezzo classici come “Money” e “Us And Them”. La voce di Gilmour cresce col passare dei minuti, si scalda, prende confidenza coi brani e col pubblico. Il Circo è pieno ed entusiasta, non riesce a credere che lì sul palco ci sia la voce e la chitarra dei Pink Floyd, tanto che sbraita, esulta, applaude a ogni accenno di brano.
E così il tempo scorre, qualcuno si aspetta pezzi da “The Wall”, che infatti arrivano, magari non tutti o almeno non quelli che il pubblico si attende, quelli dell’esibizione di Roger Waters all’Olimpico, tre anni prima. “Run Like Hell” chiude la seconda ed ultima pausa prima del delirio di “Time”, quando il pubblico, fino a quel momento seduto nelle poltroncine di plastica adibite a teatro all’aperto, si alza per concludere in piedi, esultando, cantando, le tre ore del concerto romano. Gilmour ringrazia e dà appuntamento a Pompei e a Verona.
È ormai notte, non resta che andare e sulla strada del ritorno ci chiediamo, per l’ennesima volta, a quale delle due anime siamo più vicini: Gilmouriani o Watersiani? Come se l’una potesse fare a meno dell’altra.
(Emanuele Bukne)