Era un anno strano il 1978 e forse bisognava muoversi e fare qualcosa. “The Dark Side of the Moon” diventa un successo planetario e arrivano soldi. Tanti soldi che generano poca motivazione. I soldi riescono a togliere molte cose e forse, più di tutto, il senso della realtà. Ma la band deve continuare, ed ecco “Wish You Were Here”, l’album dell’assenza, dello smarrimento. Tutti i membri della band sembrano un po’ smarriti dopo tanto successo. “Animals” è un nuovo mattone. L’album duro, spietato, perché dopo lo smarrimento la rabbia sboccia come un fiore ispido. Era il 1977 e quello fu probabilmente l’ultimo album dei Pink Floyd intesa come band unita e coesa, almeno nelle registrazioni. Prima dell’epocale “The Wall” a David Gilmour il peso di quegli ultimi cinque anni, cioè da “Dark Side” in poi, iniziava a farsi sentire. La sua intelligenza intuì che qualcosa nella band stava irrimediabilmente cambiando. Fare il solista, o almeno provarci, era una via possibile e l’album “David Gilmour” pubblicato in quel 1978 rivelò due cose: sebbene fosse un buon musicista e un discreto compositore, David Gilmour il meglio di sé lo dava in una band con una sana alchimia tra i componenti. “David Gilmour” risultò ai più qualcosa di gradevole, ma solo questo. Ci riprova con “About Face” nel 1984, con i Pink Floyd ormai destinati a disintegrarsi e questo secondo lavoro solista apre gli occhi a Dave: lo scarso successo e la poca attenzione ricevuti lo indussero a rimettere in piedi i Pink Floyd anche senza Roger Waters per “A Momentary Lapse of Reason”, “The Division Bell” e due album dal vivo. Improvvisamente nel 2006 arriva un nuovo lavoro solista, che si intitola “On an Island”. Poi nel 2015 quell’ammasso di incertezze impresentabili a firma Pink Floyd, o ciò che ne era rimasto, che è “The Endless River”. Probabilmente un apripista per l’annunciato “Rattle That Lock”, il suo quarto album da solista.
Dal suo ingresso nei Pink Floyd nel 1969 David Gilmour incide un omonimo album solista nove anni dopo, sei dopo il secondo, ben ventidue per realizzare “On an Island” e altri nove per “Rattle That Lock”. Non uno svelto Gilmour, proprio nel modo in cui suona la sua chitarra, ma le cose le fa e ci arriva, come ha fatto per anni, sin da ragazzo, quando per guadagnarsi qualche spicciolo girovagava con degli amici nel sud della Francia a suonare blues e rock and roll ovunque capitasse. Poi diventa musicista a tempo pieno, una compagna, Virginia, e dei figli, poi un’altra, la giornalista e scrittrice Polly Samson, che lo aiuta con testi e idee per i redivivi Pink Floyd del post-Waters, e ancora altri figli con lei. In fin dei conti i Pink Floyd sono ciò che vi è stato tra un lavoro solista e un altro.
“Rattle that Lock” è quanto di meglio potesse realizzare uno dei chitarristi più influenti del rock. La sua forma migliore (senza i Pink Floyd), la musica più bella che potesse comporre. Queste canzoni contengono l’anima di David e, più di ogni altra cosa, la sua immensa autorevolezza. Gilmour traduce se stesso: anima, sogni, ricordi, storie di vita… L’uomo David Gilmour si fa musicista nelle sue migliori sembianze, e dopo anni, perché il meglio di sé eravamo abituati a sentirlo con Waters, Wright e Mason e con la vecchia amicizia di colui che sostituì anni fa, Syd Barrett. Occasionalmente con altri: Supertramp e Paul McCartney, per citarne alcuni. Se “On an Island” rispecchia il musicista che era stato fino a quel momento, oggi “Rattle that Lock” celebra invece un musicista completo, maturo e con coscienza di sé; non più ingabbiato in quella meraviglia che sono stati i Pink Floyd per decenni. Non più spalla, non più parte di un meccanismo, ma solo David Gilmour.
(Alberto Vitale)