Negli anni ’90 c’era la Generazione X, c’erano i Nirvana, gli Oasis, Tarantino e i Godspeed You! Black Emperor. Questi poi avevano l’esclamativo in fondo al nome, ma decisero di spostarlo. Forse una delle poche cose che hanno cambiato dagli anni ’90 a oggi, oltre a qualche componente.
Sono in tour in Europa, passano da Strasburgo e il nuovo album “Asunder, Sweet and Other Distress” mi è ancora ignoto. Nessuna importanza, al concerto ci vado comunque.
Alle ore 20 c’è l’apertura e la gente è davvero poca. Giorno infrasettimanale e dunque non c’è calca, ma la sala verrà comunque riempita. Intorno a me molti dala vicina Germania e diverse persone sulla quarantina. A conti fatti all’epoca di “All Lights Fucked on the Hairy Amp Drooling” eravamo ventenni!
Signore e signori, gli Xylouris White!
I Xylouris White sono il gruppo spalla. Non ho la minima idea di chi siano e nemmeno ho avuto il tempo di documentarmi in anticipo. Mi siedo sul bordo del palco (opportunità che a volte capita alla Laiterie) e osservo che la strumentazione dei GY!BE è già pronta, ma proprio nelle immediate vicinanze del pubblico, a poco più di un metro dal bordo del palco, trovo una batteria con pochi pezzi, un liuto adagiato su una sedia e un microfono. “Un duo folk?” mi chiedo. Pochi minuti e le luci si spengono. Arrivano due tizi. Uno è in giacca, capelluto, un po’ in disordine. Ha delle bacchette in mano e di diverso tipo. Si china per poggiarle sulla cassa e nel mentre scruta il pubblico che applaude. La sua espressione è qualcosa di divertente. Li guarda come se pensasse “perché applausi? Mica sono qui per avere gratificazioni senza avere ancora fatto niente”. L’altro potrebbe essere scambiato per un professore di filosofia teoretica. Il primo è Jim White, batterista australiano dei Dirty Three, vanta collaborazioni con PJ Harvey, Marianne Faithfull e altri. L’altro è George Xylouris, greco, suona il liuto, figlio d’arte (suo padre è Antonis Xylouris) ha collaborato con Capossela, ma più di tutto ha inciso una tonnellata di cose.
Attaccano a suonare all’unisono e sprigionano un’ondata che pian piano annichilirà tutti quanti. Poveri gli stolti che sono arrivati e volutamente solo dopo di loro. Jim suona con disinvoltura, le sue mani si muovono con sacrale precisione. Mani che cambiano bacchette a più riprese e che Jim tiene anche infilate nei suoi stivaletti, accovacciati a terra alla sua destra. Colpi che battono piano e montano fino a sprigionare un pioggia violenta che o segue ogni deciso drappo sonoro srotolato dal liuto di George, oppure decide il battito e la direzione che il liuto segue fedele. Un percuotere quasi tribale, libero, qualcosa che prende da un fare remoto, antico, eppure ogni crescendo percussivo a tratti mi ha ricordato le prime scorazzate di Ian Paice. George Xylouris è un funambolo sulle corde: crea melodie, trame, intrecci, ceselli e lavori raffinati o da un ritmo che incalza solenne. Canta anche e le melodie fiondano lo spirito collettivo verso tradizioni remote, perdute. Ad un certo punto chiamano Thierry Amar dei GY!BE al contrabasso per un’altra sgroppata senza pari.
L’entusiasmo sale alle stelle, ma i due si consultano alla fine del brano. Forse l’ora è giunta: Jim chiede a qualcuno del pubblico che ora è e colui che in platea gli è di fronte, allunga il cellulare, Jim si protende verso il display e osserva. Guarda George e fa un gesto, lo ripete a noi tutti, quasi a voler dire “non c’è più tempo, non possiamo andare oltre”.
Escono con gli applausi della platea che gli vanno dietro.
L’Impero è sempre nero
L’orchestra Godspeed You! Black Emperor arriva sul palco alla spicciolata. I primi a fare capolino sono Sophie Trudeau, Thierry Amar, Mauro Pezzente e uno dei due batteristi (cioè Aidan Girt e Tim Herzog), per l’incipit di “Hope Drone” imbastito da violino, contrabasso, basso e batteria. Incipit ovviamente sussurrato, lento che poi va a montare sempre più forte, anche per l’arrivo degli altri, le tre chitarre di David Bryant, Efrim Menuck e Mike Moya. L’arrivo dei restanti musicisti mostra l’alienazione da contatto umano verso il pubblico. Ognuno di loro giunge in una sequenza stabilita, la quale poi alla fine verrà invertita nell’ordine di uscita dalla scena. Arrivano con un bicchiere o una bottiglia, frugandosi nelle tasche, cercando qualcosa, osservando pensosamente la strumentazione, soppesando bacchette, regolando qualche manopola. Anticonformismo puro, sotto forma di atteggiamenti distaccati verso tutto. Zero saluti. Il trionfo di non essere una star e manco volerlo diventare, ma contemporaneamente un credere in ciò che si fa vissuto ai limiti dell’alienazione.
Un concerto dei GY!BE è un ammasso di arpeggi che si ripetono, affiancati da feedback, suoni lavorati a colpi di corde dell’elettriche, dei bassi e di quelle del violino, plasmate e decise dall’effettistica e che crescono di intensità con il passare dei minuti. Onde che si alzano e abbassano nel volume e nella velocità.
Singolare vedere i due batteristi che lavorano a volte scambiandosi le postazioni, per fare poi qualcosa per cui anche uno solo riuscirebbe. Moya e Menuck sono seduti fianco a fianco e con le rispettive chitarre. Di fronte a loro Bryant, anch’esso seduto ma sempre in movimento. Sembra quasi irrequieto: è sempre a cercare di regolare qualcosa che si trova ai suoi piedi e poi durante un pezzo si alza per andare a parlottare al tizio che è al lato della scena con un mixer o qualcosa di simile, oppure si inginocchia davanti alla baracca di effetti e marchingegni che lo fronteggia, come un manovale al tornio, per creare i loop e quel labirinto sonoro che è la nuova “Asunder, Sweet”.
Alle spalle della band campeggia un panno sul quale vengono proiettate immagini, per buona parte in bianco e nero e senza la minima bellezza, ma certamente calzano con l’atmosfera alienante e straniante della musica. Il concerto va avanti con tutto questo. La bellezza del recente “Asunder, Sweet and Other Distress” è sciupata dall’aggressività dei suoni live, ma non stravolta. Insomma c’è meno pulizia, meno ‘ordine’, ma il senso del fluire melodico, della materia fatta con note che vengono scolpite con piccoli fraseggi, accordi aperti, plettrate frenetiche, ritmi ossessivi e cambi di atmosfere è tutta lì, come ormai da anni. Otto persone e un proiezionista che sviluppano una quantità di suoni che non sembra proporzionale a quanti musicisti vi sono sul palco.
Uno stile unico e che ha fatto scuola, ma averli visti dal vivo è stato come una lunga cavalcata che ha rasentato in più punti la noia, ma alla fine del concerto ho comprato l’ultimo album della band e quello dei Xylouris White, vendutomi da Jim in persona e al quale ho espresso i miei sinceri complimenti.
(Alberto Vitale)