“What if my dreams don’t become reality?
Is my life just a big mistake?
Will I be happy for the times I had?
Or would I reconsider and recalculate?”
Così recita “Wallflower”, uno dei brani inseriti nella preziosa scaletta degli In Flames della serata del primo dicembre all’Alcatraz di Milano.
Poche semplici domande che mi sono posta tante volte nella vita, e non ho dubbi, sicuramente anche voi, alle quali probabilmente non darò mai una risposta concreta ma che sentirò ogni volta bruciare nel petto rovesciandomi le budella.
Ed è proprio perché, attraversata ormai da un po’ la soglia dei 30 anni, ho cominciato a pensare che non è la quantità che conta, ma la qualità del tempo a nostra disposizione.
“Per quanto tempo è per sempre?”, “A volte, solo un secondo”
Citazione famosissima di Lewis Carroll che trovo assolutamente calzante, perché esistono attimi eterni, che rimangono vividi, puliti e pungenti nella nostra testa per un tempo incalcolabile, indefinibile ed incancellabile.
E così è stato lo scorso giovedì sera.
Inutile premettere che questo concerto ha scatenato in me un’emozione incontrollata sin dal suo annuncio, e la sua attesa mi ha consumata fino ad esaurirsi come un soffio su una candela. Sono dunque partita zaino in spalla da Roma, come ormai accade da tanti anni e già sul treno scalpitavo. Avevo così fame di quell’emozione!
Stavo finalmente per scartare il mio regalo di Natale, e mettere il puntale in cima al mio albero fatto di una collezione di innumerevoli concerti vissuti in questo meraviglioso 2022. Non poteva esserci niente di meglio per chiudere la parentesi di stagione.
Ma ora vi racconto come si è svolta la serata.
Sono le 15.00 circa, mi affaccio davanti al locale per sfidare la fortuna, magari riuscissi a fare qualche foto con qualche membro delle band e invece trovo già una timida coda davanti alle porte.
Il pomeriggio milanese è freddo il doppio di quello romano, ma avvolta nella mia sciarpa, che ha più l’aria di essere una coperta scozzese, un paio di ore più tardi mi metto anche io in attesa impaziente dell’apertura dei cancelli programmata per le 18.00.
Forse sono le 18.00 meno qualche minuto, entro finalmente e in pochi secondi riesco a scaldarmi, mi posiziono sotto al palco, stasera rinuncerò anche alla mia immancabile birra, ma non voglio scollare le mani dalla transenna, voglio vedere, voglio sentire e voglio godere.
Quattro sono le band che aspettano di caricarci stasera, una celebrazione del Death Metal completamente “made in Sweden”.
I primi a calcare il palco irrompendo con prepotenza sono gli Orbit Culture, l’Alcatraz si sta ancora riempiendo, è ancora piuttosto buio, ma la band di apertura è esplosa come i botti a capodanno, nonostante un periodo di attività relativamente giovane, hanno proposto una serie di brani coinvolgenti, death/groove, lavori interessanti da non abbandonare al primo ascolto. Impressionante l’impetuosità nella performance, un sonoro schiaffo in faccia.
40 minuti di ” intensa attività cardio”, volati, magnifici.
Pausa giusto il tempo del cambio palco, i miei capelli già spettinati e le mie mani già con i crampi alle dita, attendono di poter vedere la seconda band in programma. Gli Imminence. Sarò sincera, nel vastissimo panorama metal che negli ultimi 20 anni ha incluso tantissime varianti di stile, io, già accanita fan del metal core, non ho potuto far altro che innamorarmi un’altra volta. Avendogli dedicato già un primo ascolto pre concerto, ero sicura che non avrebbero deluso le aspettative. Così, sul già provato palco dell’Alcatraz ormai quasi colmo, si presentano loro, tra le luci porpora, blu e verdi, ancora un po’ troppo buio ma d’effetto sicuramente. La band, perfettamente sincronizzata, ordinata e ipnotica, mi incanta.
Protagonista della scena è sicuramente il cantante, Eddie Berg, che sembra essere uscito dal conservatorio, in camicia e straccali, il cui prolungamento naturale della voce è il violino che porta sulla spalla per tutto il concerto, un sinuoso e sensuale inserto tra le note graffianti e stridenti del genere proposto. Non pogo, l’esibizione mi rapisce totalmente, già non vedo l’ora di rivederli.
Esco, un po’ frastornata, da quello stato di trance prolungato e ritorno alla realtà, il locale è pieno al limite del sold out e io sono sempre più schiacciata alla transenna, non riesco nemmeno a muovere le gambe, non capisco dove finisco io e inizia un’altra persona, e questo non mi infastidisce, anzi, è l’unica occasione in cui non mi disturba una condivisione così intima che pur non essendo una novità, fa sempre un certo effetto. Sarà che sono una sentimentale e sensibile e nonostante la mia anima abbia bisogno di questo per nutrirsi, ogni volta ho la pelle d’oca, sento tutto amplificato e questo brivido un po’ caldo e un po’ ghiacciato, non mi stanca mai.
Chiaramente, è ora che arriva il vero terremoto, chiunque ami il metallo vecchia scuola, conosce i prossimi artisti che con i loro tira e molla negli anni passati, ci hanno fatto temere di non rivederli a calcare le scene in giro per l’Europa.
Devo ammettere che mi sento fortunata per averli visti già tre volte.
L’Alcatraz si illumina, gli At the Gates, perché, devo anche presentarli? Di sicuro è immaginabile capire che l’adrenalina, già a livelli altissimi, trasuda da ogni poro della pelle in quantità. Inesauribile.
Un’onda umana mi travolge, un sonoro impatto contro la transenna, la gente “vola”, ricomincia il pogo disordinato sulle note di “Slaughter of the Soul” e prosegue senza sosta fino alla fine. Nonostante la tangibile stanchezza sul palco della band di Goteborg, probabilmente derivata dagli anni e dal tour fatto di date tutte consecutive, non manca di certo l’anima della loro musica. Sempre schiacciante, cattiva, impavida. Per citare qualche pezzo “Under a Serpent Sun” , “Blinded by Fear”, “Death and the Labyrinth”.
Sono già abbastanza provata, sudata, esausta. È stato tutto così coinvolgente fino ad ora che sarebbe potuta finire lì, ma, chiaramente, dovevo aprire l’ultima casella del mio personalissimo calendario dell’avvento direi durato tutto l’anno.
Ho il cuore in petto che esplode, esattamente come la prima volta che li vidi, il tempo sembra scorrere veloce e lento allo stesso momento, non c’è pace nella mia testa, e mi domando “quale sarà la bomba che sganceranno in apertura?”
Io non leggo mai in anteprima le scalette dei concerti.
Una ragazza dello staff degli In Flames, nell’attesa, porta qualche bottiglia d’acqua sotto al palco per i fan, scena già vista anche quando andai al loro concerto a Londra nel 2019. Probabilmente è un gesto di cortesia a cui gli artisti tengono molto.
E nell’unico momento in cui cerco di prendere un respiro profondo, mi si mozza il fiato. Si comincia. I veri protagonisti della passione che mi ha spinto fino a qui, dopo un lungo intro con pathos intenso, lí, a pochi centimetri dal mio viso, posso vederli sorridere e tirare giù le membra del palco.
Le luci stroboscopiche colpiscono la folla e riflettono le pareti, al primo accordo di “The Great Deceiver”, estratto del nuovo album in uscita l’ anno prossimo, la reazione era già scritta. Un boato nella testa e le fiamme nella carne, quale inizio più sperato?
Proseguito poi in bomba con pezzi che solitamente vengono proposti a piè di scaletta per il loro intenso impatto sui seguaci vecchi e nuovi, “Pinball Map” e “Cloud Connected”.
Ho già perso la voce, e mi sento un’unica cosa con quello che sto ascoltando.
Un brevissimo stop come per abbracciare il pubblico affettuosamente, ringraziando l’Italia per accoglierli sempre con particolare entusiasmo, sottolineando l’importanza dell’impegno ad essere presenti dopo gli ultimi due anni particolarmente difficili di cui non abbiamo bisogno di specificare il motivo.
Il concerto non prosegue poi banalmente, viene proposta una scaletta con un totale di 16 pezzi, con diverse sorprese tra cui l’esecuzione di “Leeches”, mancante dalla set list da tanti anni, pezzo storico tanto quanto impegnativo vocalmente che ha messo a dura prova Anders, indiscutibilmente impeccabile, preceduto da “Only for the Weak”.
Ho il sorriso e la smorfia di chi può cantare naso a naso con il suo artista preferito, Anders si inchina nella sua classica posa, è presente sul palco in ogni angolo, Björn è lì, ad un passo dalla mia faccia, posso quasi toccarli.
Ma il mio cuore si ferma, e come il mio anche quello di tutti i presenti, quando dopo un brevissimo stacco, partono le note di “Wallflower”. Le lacrime scendono incontrollate, l’emozione è così forte che la testa gira e cantiamo tutti con la voce più forte che abbiamo nel petto le parole di quella piccola poesia.
Tra gli estratti del nuovo lavoro, finalmente live anche “Foregone pt. 1” e “State of Slow Decay”, amore al primo ascolto per i vecchi e i nuovi.
Il concerto si chiude con “I Am Above” e “Take This Life”, folla delirante e in preda ancora e ancora ad un pogo incontrollato.
Le luci si riaccendono fisse ad illuminare tutto il locale. Selfie di rito con noi di sfondo, nessun “encore”, saluti.
Sogno ancora ad occhi aperti per qualche minuto. Esco dall’Alcatraz con gli occhi gonfi di lacrime, non riesco a dire una parola.
L’unica cosa che riesco a pensare è “non svegliatemi”.
(Simonetta Gino)
Setlist In Flames:
1-The Great Deceiver
2-Pinball Map
3-Cloud Connected
4-Behind Space
5-Graveland
6-The Hive
7-Colony
8-Only for the Weak
9-Leeches
10-Foregone Pt. 1
11-Wallflower
12-State of Slow Decay
13-Alias
14-The Mirror’s Truth
15-I Am Above
16-Take This Life