I Melvins compiono quarant’anni. Roger ‘Buzz’ Osborne, noto come King Buzzo, fonda la band nel 1983 ad Aberdeen nello stato di Washington, pcioè quello stato lassù nella cartina degli USA, quello che fa angolo nella geografia del paese con il Canada. Una terra di contrasto, interno e con altri confinanti, canadesi inclusi, luogo di gente che ha fatto un po’ sempre ciò che gli pare.
Per questo anniversario la band intraprende un breve tour negli USA e poi, da fine maggio sbarcano in Europa. Due le date italiane, l’11 luglio allo Spazio 211 di Torino e il giorno dopo al Link di Bologna. Il 22 però giugno sono a Strasburgo e nella città francese ci arrivano con i Taipei Houston.
Myles e Layne sono batterista l’uno e bassista e voce l’altro e di cognome sono Ulrich. Sono proprio i due figli di secondo matrimonio di Lars Ulrich, batterista dei Metallica. I due formano la band durante il lockdown del 2020 e oggi sono una nuova realtà garage rock-grunge-altrernative rock sulla scia di cose come The White Stripes o i Fu Manchu, ma sulla scena dimostrano un carattere e temperamento molto ma molto personale!
Layne nella voce ricorda un po’ Jack White ma lui è più scatenato, più giovane. Alto, braccia e gambe lunghe, si avvinghia al basso e lo fa sembrare più piccolo, quasi una chitarra un po’ grossa e davanti al microfono incalza le strofe con energia. Myles è un assatanato, colpisce i pezzi della batteria con foga e la sua veemenza è un crescendo dalla prima all’ultima canzone. Hanno definitivamente conquistato il pubblico in sala, anche per un lotto di pezzi convincenti e soprattutto per una sintonia nel loro suonare che non ha conosciuto sbavature. Finita la loro perfonrmance smontano i loro strumenti con i roadie e poi passano la serata al banco del merchandising a discorrere, firmare le copie del loro album “Once Bit Never Bored” e essi stessi ne amministrano la vendita. Insomma, avranno un nome illustre ma la gavetta la fanno e con un fiera sicurezza inecepibile.
Trenta minuti per i Taipeis, trenta di pausa per preparare il palco e poi buon compleanno Melvins! Giungono i tre eroi sulle note introduttive di “Take On Me” degli A-Ha, Buzz Osbourne, chitarra e voce, Dale Crover, batteria e cori, e l’ultimo arrivato nella famiglia e dinastia dei Melvins il bassista Shane McDonald. Quindici pezzi, tosti, tutti di seguito, tranne per il consueto bis per “Boris”. Una cavalcata immensa, trascinante, unica. Buzz Osbourne è la sua capigliatura, la sua chitarra prodotta in Florida e tutta dorata, tranne per i potenziometri e i due humbucker che sono color metallo. In un abito lungo, un tunica, come un saio tutto nero con decorazioni colorate, lustrini e anfibi ai piedi. È completamente immerso nel suo suonare. Appena dopo qualche canzone arriva alle orecchie il tipico sound dei Melvins: un po’ grunge, un po’ stoner, tutto sludge, pesante e soprattutto lo stesso che si avverte nei loro album. I Melvins dal vivo suonano come in studio, hanno gli stessi suoni.
Dale Crover è preciso e con la chitarra di Osbourne è degnamente un pilastro della musica sprigionata dai tre. Il suo tocco pesante ma dinamico, il suo scandire con precisione, le sue rullate brevi e reiterate, rendono questo batterista che in carriera ha anche suonato e registrato con i Nirvana, tra le icone di un rock che ha caratterizzato un’epoca. Shane McDonald si presenta in completo rosso, una decorazione sul petto per un abito un po’ freak, tipo residuo dell’Estate dell’Amore, armato di un basso altrettanto rosso, immette la propria quantità di appariscenza allo spettacolo. Non da meno suonando il basso con solida, convinta ed efficace capacità, inserendosi con grazia tra le bordate di King Buzzo e i tappeti di Dale Crover.
Anche prima di arrivare in scena, si nota come l’insieme dei pedali di effetti di Osbourne siano posti davanti agli amplificatori messi di fronte al microfono, dunque per logica si intuisce che li userà dando le spalle al pubblico e dovrà spostarsi di qualche metro andando verso l’interno del palco. Scelta singolare. Ciò che colpisce nel sound della band, oltre a un certa pulita fedeltà a quanto i tre registrano in studio è l’uso delle tre voci che dal vivo diventa più netto e soprattutto chiaro come questa soluzione diventi poi un marchio di fabbrica. La chitarra di Osborne è pastosa ha proprio quel peculiare suono sludge, il quale rinforzato dal basso che scivola in maniera fluida di McDonald, sprigiona un’onda sonora che si stende sulla platea accorsa numerosa. In una città che è capitale europea e con l’Università che vede molti studenti stranieri, si avverte subito come il pubblico sia di origini diverse e di tutte le età.
Il concerto si conclude con il solo Buzz Osborne che resta in scena. Improvvisa qualche schitarrata e rimescola il testo di “Boris”, appunto il bis finale, muovendosi da una parte all’altra del palco. Una marcia che sembra un passare in rassegna la propria truppa di fedeli, il suo pubblico. Però lui è un’artista, ancora, dopo quarant’anni e dunque stoppa la sua chitarra e al microfono offre il suo sentito «Thank you!», si sposta di lato e fa l’inchino.
Buon compleanno Buzzo! Buon compleanno Melvins!
(Alberto Vitale)