Stacco il distorsore, metto da parte Satana e il Chiodo. Lascio la birra in frigo. Riprendo una storia iniziata nel 1985 e che si è sviluppata, concettualmente e praticamente, proprio su un fiume.

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La storia del nuovo album dei Pink Floyd inizia nel 1993, quando David Gilmour, Richard Wright e Nick Mason iniziarono a lavorare all’album “The Division Bell”. In quel periodo accadde qualcosa che non avveniva da anni: i tre passarono diverso tempo insieme, ma senza che altri sessionmen accompagnassero la band in studio prima e nei live dopo, com’era successo invece in “A Momentary Lapse of Reason” (pubblicato nel 1987 e in lavorazione dal 1985 e che per buona parte vide il solo Gilmour lavorare alla musica), in “The Division Bell”, in “The Final Cut” e in “The Wall”.
Tante jam session, tante epifanie catturate su nastro, tanti momenti per riassumere idee, spunti, melodie nate all’improvviso. Quell’atmosfera ‘intima’ e certamente magica produsse un brano epocale, meraviglioso: “Marooned”. Credo fosse stato Nick Mason, vent’anni fa, ad affermare che quel breve pezzo strumentale rappresentava il risultato dei tre musicisti intenti a improvvisare su un tema portante. Un esercizio sul quale i Pink Floyd hanno costruito pezzi secolari e immensi come “Atom Heart Mother” o “Echoes”.
“The Division Bell” prese la sua forma e contemporaneamente una grande quantità di materiale finì nel cassetto, stratificato su nastri e supporti sonori vari, scartati come spesso accade quando si realizza un album o un film. Nick Mason tempo addietro ebbe a dire che c’era materiale per un doppio album.
Sappiamo poi come è andata. In vent’anni i tre hanno riabbracciato l’assolutista Roger Waters e i Pink Floyd tornarono tali per una sera a Londra, davanti a 200.000 persone (e milioni di altre in TV, compreso me, che per seguire lo spettacolo mi assentai dal lavoro) in un concerto benefico e per sole sei canzoni.

Poi la morte di Wright e quella del loro amico e copertinista Storm Thorgerson, Waters che in un concerto a Londra, con il suo spettacolo “The Wall”, ospita David Gilmour e Nick Mason e dichiara che non ci sono più dissapori… Tutto ritorna normale, anche leggere su Twitter la dichiarazione della compagna di David Gilmour che annuncia un nuovo album dei Pink Floyd. Un altro? Sì, è dedicato a Richard Wright ed è stato assemblato riprendendo quelle jam session e frammenti sparsi (setacciati in archivio da Phil Manzanera) del 1993. Davvero? Perché non pubblicare – magari in più uscite o in cofanetto o come diavolo vi pare – i master originali di pezzi come “Moonhead”, i tre brani creati senza strumenti musicali dopo l’uscita di “The Dark Side of The Moon”, le session live di “Ummagumma” del primo disco e tanti altri live e brani inediti che circolano, in qualità approssimativa, sui bootleg da decenni?

No, serve l’evento. La società dell’evento, dei social network… bah!

fotoxpf2I primi due pezzi potrebbero essere stati composti da chiunque, ma ecco che i Pink Floyd si materializzano in “Ebb and Flow”, carezza infinita. Una serie di strumentali che sembrano intro, outro, intermezzi, incipit; per esempio in “Sum” si ha sempre l’impressione che stia per partire “Coming Back to Life”, ed è proprio lì che i Floyd del post-Waters compaiono ufficialmente e nella loro pienezza. Possente il lavoro fatto in “Skin”, in cui quella buona dose di psichedelia spontanea – che ha sempre contraddistinto la band almeno fino al 1972 – sembra rinascere. “Anisina” potrebbe sembrare un brano che nasce dalle intenzioni delle dita di Wright, accompagnato da fiati, e invece è David Gilmour che giostra anche il piano. Il sospetto che sia uno scarto di “On an Island”, il suo album solista, è davvero forte. Del resto “What Do You Want from Me” non è la versione moderna e cantata di “Rise My Rent”? Altro pezzo solista di Gilmour nel suo primo album?

Il fiume sonoro scorre, ma attraverso dei meandri, non sempre è uno scorrere fluido. Il tocco dei tre musicisti viene fermato in queste epifanie sonore, istantanee che risultano eccellenti, e gli aggiustamenti e le rifiniture di post-produzione non sono da meno. Di nuovo la voce dello scienziato Steve Hawkwind, in “Talkin’ Hawkin’” e infatti compare una porzione del suo discorso ripreso in “Keep the Talking”. Spettrale e molto in stile da colonna sonora “Calling” e non da meno la seguente “Eyes to Pearls”, anche se sarebbero in molte a prestarsi bene a commento di immagini. Del resto, come affermato recentemente anche da Nick Mason, “The Endless River” è stata concepita come colonna sonora di un film dei fratelli Wachowski (quelli di “Matrix”), anche se poi non si è dato seguito alla cosa. Domanda: l’album non era stato pensato come un tributo al defunto Richard Wright? Vuoi vedere che è solo stato un pretesto per mettere in circolazione del materiale usando il nome dei Pink Floyd? Non pensate che io sia cattivo: se leggete i crediti dei vari pezzi noterete che non tutte le tastiere sono di Rick.

I tocchi tipici dei tre sono riconoscibilissimi e ampiamente diffusi. Sono Wright, Mason e Gilmour, lo si capisce dopo tre secondi di ogni singolo pezzo. Parliamo di stile e non solo di modi di suonare o creare melodie che a tratti ne ricordano altre della band comunque celebri. C’è anche un discorso di suoni, strumenti ed effettistica che ritorna e ripropone cose conosciute, ma siamo nell’ambito del “marchio di fabbrica”.

La copertina è concettualmente graziosa, ma stilisticamente insipida. L’autore è un giovane artista digitale egiziano, tale Ahmed Emad Eldin, ma è stato Aubrey ‘Po’ Powell, ex socio di Storm, a trovarla e renderla adatta all’uso stabilito. Powell ha curato anche il resto dei contenuti visivi di questo album.

Il fiume scorre ancora. Il fiume, quel concetto tematico nato nel 1987, continuato nel 1994 e proseguito fino a oggi, scorre a un ritmo che sembra quello del verso che compare nell’unico pezzo cantato di questo “The Endless River”: “Con un’eleganza ormai stanca di questo mondo”.

(Alberto Vitale)