Serata all’insegna del grande thrash metal all’Estragon, con due tra le più importanti bands della storia del genere. Personalmente ero molto curioso di vedere gli Anthrax, mai visti prima d’ora, mentre gli Slayer ho avuto modo di vederli a Milano all’indomani dell’uscita del loro ultimo album “World Painted Blood”, con ancora il compianto Jeff Hanneman alla chitarra.
Arriviamo davanti all’Estragon mezz’oretta prima del concerto ed il locale è già quasi pieno e con molta altra gente assiepata fuori in fila per il biglietto. Riusciamo ad entrare alle 20,45, proprio mentre “Among The Living” apre il concerto degli Anthrax. Mi dirigo verso le prime file e vengo subito investito da un pogo allucinante . La band appare in ottima forma e tiene in pugno il pubblico puntando sui classici, lasciando davvero poco spazio ai brani di “Worship Music” e saltando completamente i pezzi che vedevano John Bush alla voce (secondo me canzoni come “Only” o “Superhero” potevano starci benissimo). Tutto il concerto è un susseguirsi di capolavori: “Caught In A Mosh”, “Indians” e “Got The Time” mandano il pubblico in delirio, un trittico da paura che precede l’ottima “In The End”, primo dei due brani estratti dall’ultimo album. Con “Madhouse” si scatena il putiferio: pogo furioso e crowd surfing, con la band, Joey Belladonna in particolare a incitare il pubblico a cantare i ritornelli. “Fight ‘Em ‘Til You Can’t” è il secondo brano da “Worship Music”. Devo dire che il ritornello un tantino “leggero” del brano, dal vivo riacquista energia e ben si amalgama con il materiale meno recente, come “Deathrider”, opener del debut album “Fistful Of Metal” che sin dalle prime note crea una bolgia sotto il palco. Il finale è affidato alla coppia “I Am The Law”, cantata a squarciagola da tutto il pubblico così come la conclusiva Antisocial che chiude l’esibizione di una band ritrovata e coinvolgente come poche altre. Mi aspettavo, però che suonassero il classicone “Metal Thrashing Mad”, ma a parte ciò il concerto me lo ricorderò a lungo.
Approfitto del cambio di palco per bere qualcosa, uscire a prendere un po’ d’aria e ritrovarmi con i miei compagni di viaggio (Matteo e Giorgia). Al nostro rientro, sotto lo stage già brulica di gente accalcata in attesa degli Slayer.
Improvvisamente si spengono le luci e parte la sinistra intro di “Hell Awaits”. Tom Araya appare invecchiato e visibilmente obeso, ma ha l’espressione compiaciuta vedendoci massacrare sotto il palco. Kerry King se ne sta al lato del palco macinando riffs facendo continuamente headbanging, mentre l’affidabile Paul Bostaph non fa rimpiangere affatto Dave Lombardo, col suo drumming molto tecnico sebbene leggermente meno aggressivo rispetto a quello del suo predecessore. Ma il motivo di curiosità principale era per me vedere come si sarebbe adattato Gary Holt (in foto). Intendiamoci, per me è un mito, stiamo parlando di uno degli inventori del thrash metal con i suoi Exodus, band alla quale i Metallica agli esordi hanno fatto da supporto. Temevo però che l’approccio differente allo strumento rispetto ad Hanneman potesse snaturare lo stile della band. I miei dubbi sono stati fugati immediatamente: Holt è una macchina da guerra sia in fase solista che ritmica. Non so quanto potrà influire a livello compositivo, ma come esecutore è eccezionale.
La band è micidiale, forse la voce di Tom è un po’ sottotono, ma i brani sono travolgenti. Anche gli Slayer sono andati sul sicuro proponendo i grandi classici , a partire da “The Antichrist”, seguita da “Necrophiliac”, “Mandatory Suicide” e “Captor Of Sin”, brani che mi sono goduto da qualche fila più indietro per poter rifiatare. Ma quando è partito il riff di “War Ensemble” non ho resistito al richiamo del pogo e mi ci sono tuffato dentro. Le mie costole ringraziano!
I brani storici si sprecano, così tra “Disciple” e “Hate Worldwide” trova spazio “Postmortem”, per poi ripescare pezzi ancor più datati, come “At Dawn They Sleep”, “Die By The Sword” e “Chemical Warfare”. Verso la fine del concerto viene proposta la nuova “Implode”, ben accolta da tutti e già entrata in testa a molti. Dopo il trittico “Dead Skin Mask”, “Raining Blood” e “Black Magic” è il momento dei bis, rappresentati dalla sulfurea “South Of Heaven” e dalla leggendaria “Angel Of Death”, durante la quale appare un banner in tributo a Jeff Hanneman; un atto dovuto nei confronti di un uomo che ha scritto pagine importantissime ed indelebili nella storia del metal.
Si chiude qui un concerto davvero infuocato; barcollando raggiungiamo l’uscita, quando un tizio che era vicino a me in mezzo al pogo fa un sorrisone e dice “Ci siamo massacrati e riempiti di botte finora e ne siamo felici”; con questa frase ha riassunto lo stato d’animo di tutti noi.
Thrash is not dead!
(Matteo Piotto)