Il tempo passa. Inesorabile. Ma io sono tra quelli che hanno visto Malmsteen dal vivo con Doogie White alla voce; sono tra quelli che hanno assistito al suo clinic presso il prestigioso CastelBrando… però devo ammettere che era un bel po’ di tempo che non vedevo il grande Maestro dal vivo.
Lui è sempre in forma, in perfetta forma… esplosivo e dominante… come se questo non fosse ancora chiaro ben dopo tutti questi decenni di onorata carriera.
Il pubblico presso l’Hall di Padova è molto caldo, anche grazie agli energetici opener, gli americani Limberlost, con quelle due potenti vocalist e con quel chitarrista solista veramente molto bravo.
Ma con Malmsteen, ogni cosa che non sia ‘Malmsteen’, è quasi carne da macello, ‘cannon fodder’ in lingua inglese: ed ecco il suo palco… proprio il SUO palco, visto che batterista, bassista e tastierista sono relegati in un angolino, senza la benché minima possibilità di invadere l’immenso spazio che l’axe man svedese calca, esige… uno spazio dentro il quale può accedere solo il fedele roadie impegnato a cambiare chitarre, a prendere al volo chitarre, a consegnare altre chitarre… oltre che fornire in maniera insistente e costante, in quantità illimitata il maestro di plettri freschi… moltissimi dei quali finiscono tra il pubblico senza aver nemmeno pizzicato una singola corda di tutte quelle favolose Fender Stratocaster.
La mancanza di un cantante con la ormai universale opinione che Yngwie dovrebbe star lontano dai microfoni un po’ spaventano, specie quando si capisce che in setlist ci sono capolavori quali “Rising Force”, “Seventh Sign” e “You Don’t Remember, I’ll Never Forget”: ma la voce del tastierista Nick Z Marino salva la situazione in maniera eccellente, lasciando al pubblico lo spettacolo di un chitarrista semplicemente unico ed inimitabile, irriducibile da decine di anni, sempre completamente dentro il suo personaggio, con tutti i cliché che lo hanno reso famoso: il calcio da arti marziali, il suonare con la bocca, le chitarre che girano o volano, il tapping superlativo, quelle scale al fulmicotone e tutte le pose tipiche concepite per mettersi in mostra da questa leggenda vivente delle sei corde. Poi gli assoli, gli intermezzi o i capitoli quali la conclusiva “Black Star” fanno ricordare per quale motivo bisogna amare questo eccentrico genio della sei corde.
Cosa farei io se fossi Malmsteen? Diavolo, organizzerei un mega tour portandomi sul palco i grandi vocalist che hanno cantato in tutti i grandi album della nutrita discografia… magari ciascuno di loro impegnato con un paio dei ‘propri’ brani: Jeff Scott Soto, Mark Boals, Joe Lynn Turner, Göran Edman, Michael Vescera, Mats Levén, Doogie White e Tim “Ripper” Owens.
Non pensate questo sarebbe il tour definitivo, il tuor assoluto? Sarebbe il concerto indimenticabile, il concerto essenziale al quale obbligatoriamente assistere prima di morire.
Ma io non sono Malmsteen, e mentre sogno ad occhi aperti sembra che Malmsteen non abbia intenzione di cedere nemmeno un metro quadro del suo palco a questi grandi vocalist… anzi… sembra pure che tra lui e molti di loro non corra proprio buon sangue.
Ma mentre sogno, mentre immagino l’improbabile concerto definitivo, mi accontento di quello che ho assistito all’Hall di Padova: perché Yngwie J. Malmsteen è una leggenda, perché continua a suonare in maniera superlativa e perché è sempre un infinito piacere poter assistere alle sue uniche ed identificative performance.
Grazie Maestro!
(Luca Zakk)